Perché parlare della Great Resignation è un po’ come guardare il dito, senza preoccuparsi della luna

Perché parlare della Great Resignation è un po’ come guardare il dito, senza preoccuparsi della luna

6 Apr 2022 - Articoli

Perché parlare della Great Resignation è un po’ come guardare il dito, senza preoccuparsi della luna

Spiegare cosa si intenda con il termine “Great Resignation” o “Big Quit” è qualcosa che lascio volentieri ad altri, ammesso che ancora ci sia qualcuno all’oscuro del fenomeno: personalmente, sento prepotente la necessità di porre una semplice domanda…

“Non si sapeva già?”

Capisco l’impatto delle dimissioni sull’organizzazione aziendale, la maggiore difficoltà nel trattenere i profili più ricercati e sfuggenti, il concreto timore che le conseguenze della pandemia non siano terminate e che anzi arrivino a dare un colpo del tutto inatteso alla capacità produttiva delle aziende ma ci stiamo dimenticando una considerazione assolutamente basilare: le persone se ne vanno quando stanno male dove sono. E non da adesso.

Le considerazioni relative allo scenario post-Covid, che avrebbe alterato gli equilibri fra lavoro e vita privata a favore di quest’ultima e rimesso la soddisfazione personale al centro di ogni valutazione causando l’ondata di dimissioni, per quanto interessanti, sono al massimo una conseguenza. Un po’ come se qualcuno avesse osato dire ad alta voce “comunque lì c’è una porta, se vuoi basta aprirla per uscire”.

Ed i casi più pubblicizzati, quelli di chi cambia radicalmente vita, alla fine sono una minoranza: la gran parte delle persone cambia semplicemente azienda.

Alla fine per andarsene oltre alla spinta serve anche una motivazione concreta, e qui vorrei dare una lettura  in controtendenza ad una affermazione  molto diffusa sul tema, quella del “Da noi, dato il diverso funzionamento del mercato del lavoro, il fenomeno ha fortunatamente proporzioni ridotte rispetto ad altri paesi”. Vista in altro modo significa che le motivazioni per aprire la porta ed uscire ci sarebbero anche, ma per prudenza si preferisce rimanere in azienda anche se profondamente insoddisfatti, sperando forse in tempi migliori. Lavorando probabilmente male, dato che nelle condizioni sbagliate nessuno riesce a dare il meglio.

Non è colpa del Covid, almeno questo.

Se il “Big Quit” porta a fare una riflessione questa deve essere non “come impedire che se ne vadano”, ma “come renderli soddisfatti di rimanere”. E leggendo i dati sulle motivazioni alle dimissioni ( qui e qui qualche articolo più discorsivo, ma ho trovato molto interessanti anche i dati del Randstad Workmonitor 2022) ecco entrare in scena tutti elementi più che conosciuti: ambienti di lavoro caratterizzati da relazioni “tossiche” con capo e colleghi, scarso riconoscimento del merito e dell’impegno, poca attenzione alle necessità personali rispetto a quelle lavorative (con declinazione, a seconda dei casi, nelle varianti “non mi fanno fare smartworking anche se lo vorrei” e “mi fanno fare smartworking ma pretendono reperibilità 24/7”), mancanza di reali investimenti nello sviluppo professionale delle persone.

Tutti questi elementi predatano, e di molto, la pandemia. Di fatto ci sono “da sempre”, e forse l’unica cosa che cambia davvero è che la Great Resignation ha finalmente dato una metrica molto concreta per misurarne l’impatto. Trovo anche troppo unilaterale la lettura che viene data del comportamento della “terribile” Generazione Z, i giovani capaci e talentuosi che tuttavia non si fanno problemi ad andarsene se non ottengono “tutto e subito”: dopo aver imparato a proprie spese che “il posto fisso” non è garantito né da percorsi formativi eccellenti né dall’impegno personale e che la fedeltà aziendale è sì un valore, ma spesso a senso unico non trovo sorprendente che cerchino di sfruttare al meglio ogni opportunità, consapevoli che tutto è temporaneo e capaci di affrontare con relativa leggerezza anche la precarietà ed eventuali periodi di disoccupazione. Unica promessa fatta, a ben guardare, che sia stata pienamente mantenuta.

Cercando di vedere in positivo nella consapevolezza dei problemi è implicita la soluzione, ed il passaggio dall’ottica del “trattenere” a quella del “soddisfare” diventa sempre più urgente: attraverso percorsi di carriera, formazione efficace, riconoscimento dei contributi di tutti.

E soprattutto attraverso un reale dialogo ed un lavoro concreto sulla relazione fra persone e azienda, perché quando un rapporto finisce molte possono essere le cause, ma la percezione di non trovare un ascolto adeguato nell’altra parte è spesso alla base.

 

 

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